Libera riproduzione in archivi e biblioteche: un approfondimento a cura di Mirco Modolo

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Libera riproduzione in archivi e biblioteche: un approfondimento a cura di Mirco Modolo

Ospitiamo nel nostro blog un contributo di Mirco Modolo, archeologo, archivista e promotore dell’iniziativa “Fotografie libere per i beni culturali”. I contenuti di questo articolo sono stati presentati da Modolo nell’ambito del convegno “Sfide e alleanza tra Biblioteche e Wikipedia”, che si è svolto il 10 novembre presso la Biblioteca Nazionale Centrale di Firenze.
Sul medesimo tema, Wikimedia Italia ha già espresso la propria posizione ufficiale all’interno di questo articolo.


Con l’entrata in vigore della legge sulla concorrenza il 29 agosto, che ha reso libere le fotografie in archivi e biblioteche, nell’orizzonte della fruizione e della valorizzazione si è affacciato un nuovo diritto, quello della libera riproduzione digitale del bene culturale, dando finalmente forma concreta a due principi costituzionali, quali la libera ricerca (art. 9) e la promozione della ricerca scientifica (art. 33).
Liberalizzazione non è tuttavia sinonimo di deregolamentazione selvaggia: è chiaro infatti che non si può prescindere dalle esigenze di tutela fisica del materiale (anche se queste ultime in passato sono state brandite sovente come pretesto per negare la libera riproduzione), né è possibile ignorare la tutela di diritti preesistenti – talvolta potenzialmente confliggenti- come il diritto d’autore nel caso di opere di carattere creativo (che riguardano i beni bibliografici ma anche opere d’arte esposte nei musei e nelle mostre) o il diritto alla riservatezza nel caso di documenti d’archivio contenenti dati sensibili e sensibilissimi.
A questi imprescindibili diritti se ne aggiunge un terzo, che ha origine dall’art. 108 del codice dei beni culturali e che riserva all’amministrazione pubblica detentrice del bene l’esclusiva sullo sfruttamento a fini commerciali delle immagini da parte di terzi. Una volta enumerati i limiti normativi che circoscrivono l’ambito di applicazione effettivo della libera riproduzione del bene culturale, rimane da capire quali siano – in concreto e in positivo – le opportunità prodotte dalla recente riforma e quali siano invece le sfide che ancora ci attendono.

La liberalizzazione della riproduzione dei beni bibliografici e archivistici, che si accompagna all’entrata in vigore il 29 agosto della Legge n. 124/2017, ha da ultimo portato a compimento un processo che è stato inaugurato tre anni fa, nel 2014, con l’uscita del decreto legge “Art Bonus” che in un primo tempo aveva reso libera la riproduzione per fini culturali di tutti i beni culturali, salvo poi escludere i beni bibliografici e archivistici in sede di conversione del decreto in legge.
A seguito di un serrato dibattito, animato dalla comunità degli studiosi raccolta intorno al movimento “Fotografie libere per i Beni Culturali” cui ha preso parte attiva Wikimedia Italia, si è giunti a una nuova formulazione dell’art. 108 del Codice dei beni culturali che ha rimosso d’un colpo divieti, tariffe e autorizzazioni, dando la possibilità agli utenti di tutte le biblioteche e gli archivi e pubblici italiani di riprodurre con dispositivi digitali a distanza gli stampati che i documenti d’archivio non sottoposti a restrizioni di consultabilità per ragioni di riservatezza e nel rispetto, in ogni caso, delle norme poste a tutela del diritto d’autore. Come avviene già da qualche anno in numerosi istituti europei.

Per inciso fa piacere ricordare che già il giorno prima dell’entrata in vigore della nuova norma, il 28 agosto, era stata proprio la BNCF il primo istituto in Italia a pubblicare un regolamento sulla libera riproduzione. Queste norme a loro volta hanno ispirato anche il nuovo regolamento interno della Biblioteca ma soprattutto il testo della circolare 14 della DG Biblioteche che, insieme alla circolare 33 della DG Archivi oggi disciplina la riproduzione con mezzo proprio in archivi e biblioteche. Entrambe le circolari, coerentemente con il nuovo testo di legge, sopprimono la richiesta di autorizzazione che l’utente era di volta in volta chiamato a presentare prima delle riprese. L’utente è ora chiamato a produrre una semplice auto-dichiarazione, da sottoscrivere al termine delle riproduzioni, dove dichiara di aver agito nel rispetto delle norme di tutela previste dall’istituto, delle norme di legge in materia di beni culturali, del diritto di autore e infine della privacy nel caso dei documenti d’archivio. Si trasferisce così direttamente sull’utente la diretta responsabilità del rispetto delle norme di legge, come già avviene alla British Library o alla BNF, ma anche in numerose biblioteche delle università italiane e degli istituti stranieri operanti in Roma.

La circolare per le biblioteche è particolarmente significativa anche perché, a differenza della circolare della DG archivi, non prevede di escludere alcun materiale dalla riproduzione per ragioni di conservazione, preferendo invece dettare una serie di accortezze per garantire la tutela fisica del supporto. Si antepone cioè al divieto la raccomandazione, puntando sull’educazione dell’utente alla corretta manipolazione. Entrambe le circolari, inoltre, mutuano dalla mozione del Consiglio Superiore MIBACT del 16 maggio 2016 due importanti previsioni: la cessione gratuita delle digitalizzazioni già eseguite dall’istituto e la semplificazione della procedura di pubblicazione delle riproduzioni eseguite dall’utente.
Per le pubblicazioni scientifiche minori, al di sotto dei 77,47 euro e delle 2000 copie di tiratura – già esentate dalla corresponsione di diritti di pubblicazione ai sensi del DM 8 aprile 1994 perché si ritiene in questi casi prevalente la finalità culturale su quella commerciale – la formale richiesta di autorizzazione è ora sostituita con l’invio all’istituto detentore del bene di una semplice comunicazione per via telematica del proposito di pubblicare. Una importante misura di semplificazione a vantaggio sia dell’utente che dell’amministrazione, che ci piacerebbe leggere presto in una circolare della DG Antichità Belle Arti e Paesaggio per vederla applicata a tutte le altre tipologie di beni culturali.

Il tema della pubblicazione introduce quello dell’uso dell’immagine del bene culturale, che va distinto dall’atto in sé della riproduzione. La vera novità introdotta dall’art. 108 comma 3 del codice dei beni culturali risiede infatti nella libera divulgazione delle immagini di beni culturali di pubblico dominio per finalità culturali, cioè diverse dal lucro. L’utilizzo delle immagini di volumi storici o manoscritti è più limitato strettamente alle “ragioni di studio” o “personali”, come avveniva sinora per gli scatti autorizzati con mezzo proprio, ma si estende a ogni “libera manifestazione del pensiero o espressione creativa”, in analogia con quanto la legge dispone dal 2014, per effetto dell’Art Bonus, per le altre categorie di beni culturali.
Le prospettive sono interessanti, perché così si apre la strada alla libera pubblicazione online delle fotografie delle fonti storiche, vale a dire sui social, nei blog oppure in opuscoli a stampa non commerciali, riconoscendo all’utente lo status di soggetto abilitato a produrre informazioni sul web, e non più quello di “consumatore passivo”. Non solo. Con il supporto di ICCU e ICAR e della stessa Wikimedia Italia si potrebbe anche pensare a una piattaforma che aiuti gli utenti a caricare online i propri scatti, soprattutto in caso di manoscritti o fascicoli riprodotti integralmente, che si pone un duplice scopo: quello di promuovere la condivisione delle fonti documentarie tra gli studiosi e quello di evitare la dispersione di un patrimonio di immagini che sarà destinato a incremento costante per effetto della recente liberalizzazione.

Se la riproduzione obbedisce invece a scopi lucrativi, essa continuerà invece a soggiacere al regime di autorizzazione preventiva e all’eventuale pagamento all’amministrazione di diritti d’uso da parte del terzo fruitore. Entra in scena qui il terzo diritto, il diritto dominicale, in base al quale l’ente pubblico, in quanto proprietario del bene, esercita un controllo sull’utilizzo della riproduzione del bene a fini commerciali, un controllo che si dilata al punto da prevenire qualsiasi eventuale uso lucrativo non autorizzato da parte dei singoli utenti.
In base all’art. 108 infatti la foto per poter essere diffusa liberamente non solo deve perseguire scopi culturali, ma deve essere effettuata in modo tale che l’immagine stessa non possa essere ulteriormente riprodotta da terzi a scopo di lucro. L’espressione è di per sé ambigua e avrebbe bisogno di urgenti chiarimenti da parte del competente ufficio legislativo ministeriale: non è infatti ancora chiaro se per soddisfare questa condizione sia sufficiente un richiamo alla norma nel testo della didascalia sottoposta all’immagine pubblicata, come sarebbe auspicabile, oppure se il limite sia di natura tecnica. In quest’ultimo caso l’immagine andrebbe diffusa solo a bassa risoluzione o con una filigrana in grado di scoraggiarne il riutilizzo (anche se rimane arduo nei fatti capire quale sia la risoluzione idonea a impedire di fatto eventuali usi lucrativi).

Questa stessa “ansia di controllo” si manifesta anche nelle policy di archivi, biblioteche e musei, quando cioè è l’istituto, e non il singolo, a digitalizzare e a diffondere le immagini nel web: si pensi ai progetti di digitalizzazione che non prevedono immagini scaricabili, oppure scaricabili solo a bassa risoluzione per renderli inutilizzabili; all’uso di filigrane per scoraggiare il riutilizzo, o alla distinzione tra cessione gratuita di riproduzioni a bassa risoluzione (adatte solo allo studio personale) e quelle ad alta risoluzione (adatte ad un uso commerciale).

Anche se sarebbe perfettamente legittimo per l’istituto pubblico proprietario del bene rilasciare immagini con licenze di libero riuso, poiché la legge pone dei vincoli alla libera diffusione delle immagini solo a carico del terzo fruitore, nella realtà licenze di libero riuso non vengono rilasciate dagli istituti pubblici, e ciò si verifica sia per una cognizione non sempre precisa dei reali limiti normativi, sia per il timore di arrecare il famoso danno erariale per il mancato introito derivante dal pagamento dei diritti d’uso sulle fotografie. Se però usciamo dai confini nazionali, ci accorgeremmo che in un numero crescente di istituti pubblici e privati stranieri si assiste a sperimentazioni di segno opposto, volte cioè a promuovere il libero riutilizzo per immagini di pubblico dominio che a loro volta riproducono beni di pubblico dominio, su cui cioè non insiste alcun tipo di privativa connessa al diritto d’autore.
La New York Library, il Getty Research Institute, il Los Angeles County Museum of Art, la National Gallery di Washington, la Yale University Art Gallery e il Walters Art Museum di Baltimora, in Europa musei come lo York Museums Trust, lo Statens Museum for Kunst di Copenhagen, il Rijskmuseum di Amsterdam e la British Library (“catalogue of illuminated manuscripts”) perseguono tutti ormai politiche di libero accesso, dirette cioè a incoraggiare l’utenza a riutilizzare liberamente e per qualsiasi scopo – lucro compreso – le immagini delle proprie collezioni. E non è un caso che a questo tipo di policy si accompagni sempre alla diffusione di immagini di altissima qualità per promuovere il riutilizzo delle immagini, che non è più visto come potenziale abuso da cui difendersi, ma al contrario viene incentivato al massimo per permettere agli utenti di ricavare dall’immagine qualsiasi tipo di utilità, anche economica.

I diritti di sfruttamento dell’immagine potrebbero essere giustificati dagli elevati costi sostenuti dall’amministrazione pubblica per la tutela fisica e la gestione dei beni culturali, se non fosse già stato dimostrato che si tratta di un “business model” fallimentare. Ma al di là di questi calcoli, va detto che gli sforzi di immaginare il museo come una – improbabile – impresa sono viziati dal difetto di considerare il punto di vista esclusivo dell’amministrazione, finendo per trascurare del tutto quello dei fruitori e, con esso, il potenziale economico e creativo delle immagini di beni culturali.
Se infatti guardiamo ai beni culturali pubblici materialmente intesi, nessuno nega che il loro utilizzo da parte di un singolo soggetto privato debba essere subordinato al pagamento di un corrispettivo proporzionale ai profitti economici che può trarne l’utilizzatore, perché l’uso di un bene pubblico da parte del singolo preclude il contemporaneo utilizzo da parte di altri potenziali fruitori.
Ma il bene culturale digitalizzato è per definizione a consumo «non rivale», e cioè la fruizione di esso da parte del singolo non ne riduce la disponibilità altrui. Anzi, il valore del digitale si misura tutta sulle sue infinite possibilità di condivisione: quanto maggiori saranno i casi di riuso e quanto più vasta e diversificata sarà la gamma di utenti, tanto maggiore sarà il valore riconosciuto dalla collettività al dato culturale e, di riflesso, all’istituto che conserva gli originali, il che si traduce in una maggiore capacità di attrarre finanziamenti pubblici e privati. All’opposto i vincoli burocratici, più ancora che le tariffe, rischiano di disincentivare l’accesso, il download e il riuso dei dati detenuti dagli istituti, senza peraltro riuscire ad apportare un adeguato tornaconto economico all’amministrazione.

Insomma il tema del libero riutilizzo ci invita a guardare oltre la cerchia degli studiosi, per abbracciare le esigenze del pubblico più ampio, che in fin dei conti del patrimonio culturale è il legittimo proprietario. Nello scegliere licenze aperte, abbiamo visto, molti istituti stranieri stanno dando vita a un nuovo approccio al digitale, che vede il passaggio dalla cultura dell’“accesso” alla cultura del “riuso” del dato culturale. Chi si oppone all’adozione di licenze libere con l’argomento del danno erariale allo Stato dovrebbe riflettere altrettanto seriamente sull’entità del danno culturale, economico e sociale che i vincoli all’immagini possono provocare alla società, soprattutto in termini di occasioni perdute e potenziali inespressi.

Concludo allora con una domanda: perché allora non provare a sperimentare? Perché non avviare progetti di digitalizzazione mirati che prevedano il libero riuso commerciale delle immagini con la possibilità di valutare a monte le ricadute di essi in termini di costi/benefici sul lungo periodo? Certo, sarebbe auspicabile. Sempre che il decreto ministeriale di prossima emanazione, attuativo del d.lgs. 102/2015, non stronchi sul nascere queste possibilità stabilendo by default l’imposizione di tariffe sul riuso commerciale dei dati della pubblica amministrazione.

Per approfondimenti: M. Modolo, Verso una democrazia della cultura: libero accesso e libera condivisione dei dati, in Archeologia e Calcolatori, 9, 2017, c.s.
Sul medesimo tema, Wikimedia Italia ha già espresso la propria posizione ufficiale all’interno di questo articolo.

Nell’immagine: la sala di lettura e ricerca della New York Public Library. Di Leonard G. di Wikipedia in inglese, CC SA 1.0, via Wikimedia Commons