La nuova vita degli archivi Alinari: bene, ma non benissimo

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La nuova vita degli archivi Alinari: bene, ma non benissimo

Gli archivi Alinari sono una delle maggiori raccolte di immagini fotografiche, con reperti che coprono un secolo e mezzo di storia. È stata dunque una bella notizia sapere che non sarà disperso: all’inizio del 2020 la regione Toscana ha acquisito la collezione completa, con un valore complessivo dell’operazione di circa 15 milioni di euro, e nei mesi successivi ha completato l’opera ottenendo anche i diritti sulle immagini già digitalizzate. I numeri sono impressionanti: più di cinque milioni di esemplari, di cui tre milioni e mezzo fanno parte dei loro fondi fotografici, partendo dai dagherrotipi per arrivare alle immagini attuali, e quasi un milione e mezzo di foto e album provenienti da donazioni. Infine ci sono anche circa 250.000 libri e riviste di fotografia. Le opere attualmente in formato digitale sono poco più di 200.000, e la Fondazione creata ad hoc e che avrà sede a villa Fabbricotti dovrà fare un lungo lavoro di digitalizzazione, oltre all’imperativo restauro e cura delle immagini che si stanno deteriorando. I piani per la fruizione sono ambiziosi e prevedono un museo fisico, oltre a un innovativo sito web.

Tutto bene, insomma? Beh, non proprio del tutto. Leggendo un articolo apparso un paio di settimane fa sull’inserto Robinson di Repubblica, si scopre che il neopresidente della Fondazione Alinari per la Fotografia ha promesso «Apriremo gli archivi a chiunque ne vorrà fare un uso culturale». Andando più nel dettaglio, si ipotizza la «cessione gratuita del diritto di riproduzione per utilizzi culturali, ma con pagamento di una quota di servizio (che potrà scendere a pochi euro per uno studente alle prese con la tesi), e una sorveglianza sugli usi commerciali, per evitare il rischio della banalizzazione. Insomma, non un self-service, ma una gestione culturale.» Lasciamo per il momento da parte l’ossimoro “cessione gratuita dietro pagamento di una quota”, e guardiamo a quello che succede nel mondo. Nell’articolo, Michele Smargiassi nota che ci sono due modelli: quello delle agenzie stock come Getty, che si fanno pagare (bene) per praticamente tutto, e quello della Library of Congress statunitense, che in omaggio alla visione americana “i contribuenti hanno già pagato con le loro tasse” consente a tutti l’uso libero di tutto il loro catalogo di immagini storiche, anche in alta definizione. La terza via proposta si limita a quanto pare a “facciamo pagare un po’ di meno”; non pare neppure prevista un’esenzione per usi non commerciali, visto l’esempio della tesi di laurea che è stato fatto. Diciamo che è una terza via piuttosto sbilanciata…

Questa visione nasce dalle idee del ministro della Cultura Dario Franceschini – non so se ricordate la “Netflix della cultura”. Secondo Franceschini la cultura, o almeno quella italiana che è “la più migliore del mondo”, deve diventare una fonte diretta di guadagni. Potremmo essere caritatevoli e considerare che in fin dei conti questo approccio è migliore dell’appaltare a Google la digitalizzazione, ma a me la cosa pare una magra consolazione. Se proprio c’è qualcuno convinto che questa è finalmente la volta buona dopo tanti insuccessi e abbiamo trovato il sistema di fare più soldi con la cultura che quelli che ci costa mantenere la struttura burocratica corrispondente, non sarebbe possibile fare una vera terza via e liberalizzare l’uso di immagini con una dimensione massima di 1000 pixel, ovviamente citando la Fondazione Alinari come titolare dei diritti per le immagini ad alta risoluzione?

Nell’immagine: Villa Fabbricotti (sede della Fondazione Alinari per la fotografia). Sailko, CC BY-SA 3.0, via Wikimedia Commons